[Nota: il brano che segue è del 1992. Credo che si possa leggere ancora con piacere. All'epoca non erano ancora di uso comune i termini "chat" e "messaging" per indicare i sistemi di conversazione testuale in remoto.]

Bruno Bassi (bruno@brunobassi.it)
Storie di ordinaria tecnologia (1992)

"J'ai ta voix autour de mon cou."
(Jean Cocteau, La voix humaine)

Ho un amico che ha una nonna. Costei, come ancora accade alle persone anziane più fortunate, non è molto avvezza all'uso del telefono; immaginiamocela mentre chiama suo nipote, quando lui è in paese in una casa a poche decine di metri dalla sua. Non so come descrivere il suo modo di parlare, che fra l'altro non ho mai sentito, ma a quanto mi dicono non ha nulla che valga la pena di segnalare. Quando il nipote è in città, succede invece una cosa interessante. La nonna, durante tutta la chiamata, parla dentro alla cornetta a voce MOLTO ALTA. Ovvio: siamo lontani, e se vogliamo farci sentire dovremo parlare più forte.

Questa storia (che devo a Luca Tognoli) mi ha fatto conoscere, per la prima volta nei miei ricordi coscienti, un momento di meraviglia per quell'involucro di plastica rigida che sta sul mio tavolo, e che uso quotidianamente per comunicare con i miei simili. Di questo oggetto so ben poco, ha una tastiera con cifre e altri simboletti, e ne esce un filo attraverso il quale passano la voce mia e quella di altri. Da qualche tempo gli hanno aggiunto un paio di tasti allungati, con sopra delle lettere. Non l'ho mai aperto per guardarci dentro e, anche se questo può sembrare curioso, non ho mai sentito bisogno di farlo. Ha sempre fatto parte del mio mondo, come qualcosa dal funzionamento scontato.

A volte, confesso, l'ho odiato. Quando avrei voluto ad ogni costo ascoltare una certa voce, e lui non funzionava. O era "occupato" (chi?). O quando funzionava solo per ricordarmi che la persona che avrei voluto avere vicina era invece lontana, e allora sognavo televideofoni, teleodorofoni, teletattofoni, e soprattutto desideravo uno di quegli smaterializzatori che rimaterializzano a distanza (ma gratis), come quelli dei vecchi film di fantascienza. Non avevo ancora sentito parlare di realtà virtuale.

Non so quasi nulla su cosa sia successo quando il telefono è entrato per la prima volta in casa della gente; De Kerckhove non ne parla, e sarò grato a chi mi saprà indicare un buon libro sull'argomento. Ma ho sentito parlare di pubblici terrorizzati dalle prime proiezioni dei Lumière, e dalle teste senza corpo di Griffith. E ho letto dello sconcerto di Agostino, quando vide Ambrogio leggere in silenzio.

 La morale popolare di episodi del genere è probabilmente qualcosa come "il nuovo spaventa, ma poi ci abituiamo." Come se, dopo un periodo di rodaggio, tutto per noi riprendesse come prima. Come se nel passaggio da un'era tecnologica all'altra fosse il mondo esterno a cambiare, e noi restassimo gli stessi. Questa idea ha sicuramente a che fare con quei sottili meccanismi di retroazione che ci consentono di mantenere un senso di identità, come individui e come cultura. E' però un'idea da accantonare durante la lettura di questo libro, la cui tesi fondamentale è precisamente l'opposto: le innovazioni tecnologiche operano profonde modificazioni nel nostro modo di pensare e nella struttura del nostro cervello.

 La tecnologia è un prodotto dell'uomo, o viceversa? In che modo le tecniche retroagiscono sul cervello? E in particolare, quali sono gli effetti sul cervello di specifiche trasformazioni tecnologiche quali: l'introduzione della scrittura alfabetica, l'invenzione della prospettiva, la massificazione della TV, la diffusione dei personal computer, la costituzione di reti telematiche mondiali, e l'ipotetico avvento prossimo venturo dei sistemi di realtà virtuale?

Queste le domande intorno a cui Derrick de Kerckhove si arrabatta lungo tutto questo libro. Preferisco lasciare al lettore il piacere di scoprire alcune risposte attraverso il tessuto di idee, di aneddoti e citazioni offerto dall'autore, e mi limito ad annotare qualche altra osservazione personale.

 Non mi rammarico di non essere stato lì quando il telefono ha fatto il suo ingresso nella vita quotidiana, o di non avere sperimentato uno dei primi fax in compagnia di Marshall McLuhan, perché ho avuto anch'io una prima volta con una tecnologia comunicativa forse altrettanto innovativa e sconcertante.

Sempre per colpa dell'amico succitato, un giorno ho saputo che questo personal computer che sto usando per scrivere poteva diventare il terminale di un'altro computer, a sua volta collegato in rete con migliaia e migliaia di altri computer sparsi per il globo. Solo in casa, seduto su questa sedia, mi sono trovato proiettato in un sistema di conversazione telematico, una sorta di grande pub virtuale popolato da parecchie centinaia di persone di tutto il mondo, che si trovavano lì per conversare, giocare, flirtare. (Per gli esperti, i curiosi e i pedanti dirò che si trattava di IRC, o Internet Relay Chat, ma cose analoghe si possono fare anche con Videotel.)

Potevo interagire con una di queste persone per volta, o partecipare a conversazioni di gruppo con altre due, cinque, trenta di esse. Tutto quello che potevo scambiare con costoro erano sequenze di caratteri ASCII. Non vedevo i loro occhi, né potevo sentire la loro voce. Eppure, era evidente, stavamo parlando. Il telefono mi offre una voce senza corpo; io stavo sperimentando un'oralità senza voce.

Questo nuovo modo di comunicare mi spaventava e affascinava al tempo stesso. Ho passato lunghe ore al terminale, scambiando opinioni, chiacchiere, tenerezze, scherzi con presenze pure, esseri umani privi di braccia e di capelli, di sguardi e di brufoli, incorrotte manifestazioni del logos loro malgrado. Ho coltivato amicizie, e mi sono infatuato di persone che non avevo mai visto né sentito. Spero tuttora che il loro sesso fosse quello che mi hanno lasciato credere.

Potevo registrare le conversazioni su dei file, che poi rileggevo avidamente. Parlavamo, eppure tutto quello che accadeva potevo in seguito tenerlo sotto gli occhi. Scripta che volant o verba che manent? Me lo sono domandato a lungo, per decidere infine che non importava più. La vecchia distinzione netta fra la scrittura e l'oralità era entrata in crisi nel mio cervello. Adesso ho superato la crisi; posso parlare scrivendo, e la cosa è assolutamente normale. Non sarò un uomo più felice, ma non mi si venga a dire che non sono cambiato.

Bruno Bassi
Bologna, novembre 1992


Questo scritto è stato pubblicato come introduzione a: Derrick de Kerckhove, Brainframes, Bologna, Baskerville, 1993.